Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia
Una frase che ci appartiene. Non dall’ora che avremo letto il libro, ma da sempre.
Questo di Enrico Macioci è un libro deciso, netto e pieno di personalità, proprio come l’amico del protagonista che non ha bisogno di fingere d’esser altro rinunciando così ad esser se stesso.
Il titolo si riferisce alla frase che il piccolo Alfredo Rampi (conosciuto da tutti come “Alfredino”) pronunciò poco prima di morire, dopo la sua caduta nel pozzo di Vermicino, nel giugno del 1981. L’evento ebbe un grandissimo risalto mediatico ed entrò nell’immaginario collettivo di un’intera generazione di (allora) bambini.
Tra questi l’anima del piccolo Francesco, protagonista di questo romanzo, che ha solo sei anni quando apprende della caduta nel pozzo di Alfredo e proprio nelle stesse ore perde Christian, il suo migliore amico: dopo averlo salutato, una sera prima di cena, lui infatti non fa rientro a casa.
Forse anche la vita di ogni altro bambino quel giorno fu scissa per sempre, tra un Francesco che va alla ricerca e un Christian che scompare. Forse anche loro si sono sporti con tutta la faccia e hanno guardato dentro il loro burrone.
Il romanzo di Enrico è un viaggio nella storia, la nostra storia personale e quella collettiva. Allo stesso modo è un viaggio nella mente di ogni bambino.
Francesco, col suo piglio deciso e duro, si scontra con la delusione del mondo dei grandi che riescono a mettere su un ambaradan del genere eppur senza fare l’unica cosa che conta e per cui erano tutti lì. Vista coi loro occhi, infatti, un migliaio di persone con l’aria sicura non riescono a tirare fuori un piccolo bambino da un piccolo buco.
Rivivendo quel momento con le lenti del mondo di oggi, radicalmente cambiato, ci chiediamo quale buffo scherzo del destino abbia segnato la distanza tra il nostro stare al mondo di allora, libero come una foglia, e quello di adesso. Viene da chiedersi come ci saremmo sentiti se quella stessa sera tutte le televisioni avessero trasmesso in diretta l’immagine di un uomo qualunque che diceva «bambini, da domani mattina è vietato uscire e incontrare altri bambini nel muretto del quartiere. È vietato correre sui bordi delle vecchie fontane e giocare a campana. È altresì vietato passeggiare lungo i campi al mattino e giocare a nascondino alla sera, o passare in qualsiasi orario lungo il ruscello per arrivare prima a casa. Dimenticate anche i ghiaccioli del bar all’angolo, fatta eccezione per il lunedì, e ricordate che non potete in alcun modo rincorrere - mi raccomando - i camion, in particolare quelli pieni di pannocchie, né il carretto con i gelati. Vi concedo una sola passeggiata a settimana, la domenica mattina, dalle ore 10.00 alle ore 10.30, a passo lento ma deciso, solo se avrete fatto almeno 7 ore e mezza di sonno ininterrotto e senza sogni, e se sarete capaci di mantenere lo sguardo né troppo alto né troppo basso, per essere sicuri al 150% che la vostra passeggiata non arrechi alcun rischio a nessuno, soprattutto ai bambini che non hanno la vostra stessa possibilità di passeggiare liberamente. Facciamo affidamento su di voi, ne va della sicurezza di tutti. Il mondo è pieno di burroni. Sappiamo che non ci deluderete».
E invece il mattino seguente la morte di Alfredo, noi con qualche domanda nelle tasche da consegnare a questo presente, riprendemmo a correre a perdifiato e a dimenticarci di controllare l’asfalto che ci aspettava.
Oltre quarant’anni dopo, cosa ne è stato di noi? Abbiamo barattato la libertà in cambio di un ideale di sicurezza, perdendoli entrambi. I bambini non hanno nemmeno più la possibilità di idealizzarci e poi restare da noi delusi. Hanno introitato così bene il senso di colpa dello stare al mondo, il divieto, il no, il fatto che ad una loro azione sbagliata corrisponda una punizione, in sintesi hanno bevuto così tanto latte intinto al gusto di società illiberale del controllo da non avere più burroni in cui cadere.
Noi che abbiamo trascorso le estati a darci appuntamento a voce con i nostri amici, a incrociarci al muretto, a costruire casette, a seppellire animali morti, a piantare semi attendendo che sbocciassero fiori, a scrivere lettere, ad andare in parrocchia a piedi, a usare qualche spicciolo per la merenda, a scoprire case abbandonate, a lanciare e poi ricorrere bottiglie piene di sassi in discesa e poi tornare indietro con gli occhi chiusi, a sentire gli anziani vicini di casa raccontare mille volte la stessa storia, a vederli piangere con le foto dei figli emigrati o ridere a crepapelle davanti a una nostra battuta sciocca, a organizzare in strada spettacoli con presentatori e ballerini dove invitare tutto il quartiere, a mangiare fiori, a creare profumi con il sapone e gli steli e cercare poi di venderli nei mercatini, a inventare disinfettanti naturali da applicare sulle ferite appena aperte dei bambini più piccoli, a correre in bici senza mani, ad essere rincorsi da anziani arrabbiati per l’ultima marachella, proprio noi, li abbiamo chiusi in casa, col volto coperto, al riparo dai nostri abissi.
Eppure è proprio allora che tutto iniziava a cambiare, e cominciava a inclinarsi il piano che ora vediamo completamente saltato in aria. Forse era difficile capirlo, forse no, forse abbiamo bisogno di guardare le cose con l’anima bambina o con lo sguardo poetico e crudele di uno scrittore.
Questo romanzo giunge anche come una delicata denuncia al mondo dei grandi. E non tanto perché non hanno saputo tirarci fuori dai burroni ma perché non lo hanno mai ammesso.
Abbiamo respirato una genitorialità da un lato austera, distante, sicura e piena di possibilità [al contrario di quella odierna stramba, simbiotica, insicura e precaria] dall’altro miope. Così i genitori sentivano di aver concluso il loro dovere nel mondo l’uno portando un buono stipendio a casa, l’altra avendo preparato la cena, entrambi mai abbastanza forti per chiedersi se il loro bambino fosse felice. Questo romanzo parla del modo di essere mamma e papà di un’intera generazione. Pasti variegati e nutrienti, cartoni alle quattro di pomeriggio, sport, una cameretta piena di giochi, panni sempre stirati. Avevamo tutto tranne la capacità di capire quello che stava mancando.
Abbiamo camminato sotto il sole, o quando cominciava ad arrivare il buio, o anche la sera tardi sotto le stelle. Abbiamo sentito come cambiava l’odore dell’aria al mutare delle stagioni, e dai rumori delle televisioni che sgattaiolavano fuori dalle case siamo stati in gran parte consolati.
Qualcuno tra noi a un certo punto ha capito che in questa giostra da cui non si poteva decidere di scendere, e in cui si doveva in ogni caso esser felici, qualcosa iniziava a non tornare. Forse Francesco era uno di questi … Ma non sapremo mai se il vero strappo sia stato il burrone o l’asfalto costoso e al catrame delle nostre vite che ce lo teneva nascosto.
Un libro che si posa sull’anima delicatamente come una farfalla che per capire il giardino aspira al fiore, e lui è la farfalla e tu sei il fiore.