Antropologia della violenza di massa

Il linciaggio di Francesco Tomei a Celano, il 30 dicembre del 1923

Verità & Riconciliazione
8 min readAug 29, 2022

Il delitto di Tomei Francesco detto «J Peluse» (Il Peloso)

Era la notte tra il 29 e il 30 dicembre del 1923 e da oltre un anno — dal 28 ottobre del 1922 — l’Italia aveva perso la sua libertà. Celano aveva perso la sua classe dirigente ed era in balìa di una situazione di caos e squadre di teppisti. Quella notte Francesco Tomei — ladro di professione — in uno dei suoi tanti affronti verso la popolazione di Celano rubò presso la Chiesa di San Giovanni le esequie dei Santi Martiri (Simplicio, Costanzo e Vittoriano), venerati dall’inizio del cristianesimo e santi protettori della città. Il bisogno di lanciare un affronto e commettere un sacrilegio appariva chiaro dallo scenario rinvenuto il mattino del 30 quando sul pavimento della Chiesa furono ritrovate le ossa dei santi a terra. Il Tomei era rimasto sempre impunito per i suoi gesti (sempre verso il patrimonio, mai verso le persone). Ma quella volta qualcosa andò diversamente dal solito.

La notizia dell’accaduto passò di bocca in bocca e dopo poche ore la popolazione si raccolse nella piazza del paese destinando a J Peluse minacce di morte e maledizioni. Intanto, anche grazie ad una lettera anonima giunta in caserma, il ladro sacrilego fu trovato dai carabinieri e condotto in caserma.

I celanesi non appagati dall’arresto e certi che anche questa volta, come tutte le altre, il Tomei l’avrebbe fatta franca, organizzarono una processione per riportare in Chiesa la refurtiva (urne e paramenti) percorrendo la strada che collega la località Valchiera alla Chiesa di San Giovanni in piazza. La banda musicale, dopo aver accompagnato la processione, riprese il cammino intonando la “Marcia reale”. Qui vi fu la predica del prete che invocava la calma, ma la massa si diresse in balìa dei propri impulsi verso la caserma dei carabinieri dove si trovava Francesco Tomei in manette. Davanti la caserma i musicisti cambiarono la musica e intonarono la “Marcia funebre” come segnale della condanna a morte. Ne discese un clima di confusione totale: «la folla era diventata un blocco fuso di volontà implacabili». La massa inferocita e disumanizzata superò la camera di sicurezza e irruppe nella caserma, vincendo la strenua resistenza dei militi. Raggiunse infine il Tomei, uccidendolo. Questi fu poi trascinato dalla folla fino alla piazza e qui fu dato alle fiamme e appeso ad un’inferriata «miserabile macabro avanzo».

Antropologia della violenza

Questo episodio raccontato nel libro «Follia di massa» richiama alla memoria il caso storiografico ricostruito nel libro «Il linciaggio di carretta di uno storico docente a Pisa Gabriele Ranzato». In una Roma appena liberata dalla guerra avvenne il linciaggio di Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli, carcere in cui molti anni dopo io avrei svolto un’esperienza lavorativa che non esiterei a definire “estrema” e che allora era pieno di detenuti politici. Donato Carretta era stato riconosciuto, in un processo fatto a Caruso, un collaborazionista. In realtà era solo un testimone ma la gente gli aveva dato addosso attribuendogli ogni responsabilità. Le forze dell’ordine tentarono in ogni modo la sua difesa, ma la folla cercò di ucciderlo in vari modi. Inizialmente tentando di buttarlo sotto le rotaie del tram, proposito che si scontrò con il rifiuto dell’autista, in seguito gettandolo nel Tevere, tentativo che fallì perché lui riuscì a nuotare e trovò una spiaggia dove rifugiarsi. Qui la gente distesa al sole salì in barca, lo raggiunse e lo picchiò con i remi per affogarlo. Venne così ucciso da una folla indifferenziata e fu portato appeso a testa in giù di fronte al carcere da lui prima diretto.

In una Roma a pezzi nasceva un non organizzato, apparentemente del tutto spontaneo, episodio di violenza che colpisce e ci chiede — al pari di quello di J Peluse — spiegazione.

La folla indifferenziata

Come nasce un’azione di gruppo? E come mai questa sete di violenza emerge in una folla indifferenziata?

Probabilmente perché la violenza prende delle forme che sono ritualizzate. Con questi gesti si risponde ad una grammatica simbolica precisa sul tema della violenza, aspetto che si ritrova infatti anche nei supplizi corporali nelle società dell’antico regime oppure nelle rivolte contro il re nell’Europa moderna. Come spiega Ranzato è difficile quindi non interpretare questo fenomeno come un rito, un rito di rovesciamento del potere, un rito politico che si sarebbe ripetuto a pochi mesi a Milano con il cadavere di Mussolini.

Come spiegare l’accaduto? Irrazionalità della folla? Come disse Gustav Le Bon nel suo libro sul comportamento delle masse, intese come un soggetto irrazionale, dobbiamo pensare che esse si lascino trascinare cancellando la volontà dei singoli?

La folla esaltata certamente esiste ma non spiega tutto. Bisognerebbe ad esempio cercare di capire chi sono i partecipanti al linciaggio, chi lo inizia, in che misura la folla non è indifferenziata ma ha al suo interno personaggi specifici. È indubbio che questa ritualità è un codice che è conosciuto dalle persone anche se non era mai stato messo in gioco prima di quel momento. In circostanze precise il codice si attiverebbe e le persone riuscirebbero quindi a comunicare tra loro spontaneamente e diventare un’unica potentissima e inarrestabile arma.

Eppure queste spiegazioni razionalistiche non spiegano tutto di questa malvagità popolare che l’evento mette in gioco e che non rimanda a nessuna teoria dell’agire razionale. Il soggetto umano agisce solo per un proprio utile come sembrerebbero spiegare le teoria dell’utilitarismo? La logica del mercato è così. Ma nel dono non si cerca di ottenere un’utilità maggiore. La violenza è il contrario della logica del dono ma ugualmente in essa non sembra esservi un’utilità. Si può pensare alla vendetta ma molte persone non avevano una vendetta da vendicare. Sembra vi sia stato in molti di questi omicidi di massa il puro piacere della violenza.

Lo sguardo della storia

Cosa può dire uno storico rispetto a questi eventi? Ranzato spiega che è stato centrale nell’accadere di alcuni eventi il contesto della guerra dove con la sua radicale svalutazione della vita umana e la perdita di autorità degli apparati repressivi. La guerra infatti produce assuefazione alla sopraffazione fisica cancellando o sospendendo le condizioni vigenti del processo di civilizzazione.

Quest’ultima categoria teorica (il processo di civilizzazione) è stata ripresa anche da Norbert Elias che ha studiato il modo in cui storicamente dal Medioevo a oggi le istituzioni sociali hanno progressivamente messo sotto controllo i naturali impulsi aggressivi e i piaceri della violenza, facendoli diventare monopolio del potere centrale dello Stato. Il processo di civilizzazione è in tal senso l’eliminazione dei processi violenti dalla quotidianità: gli impulsi che restano alla violenza si possono esprimere in altri modi, ad esempio in alcuni sport (pugilato), ma sempre in modo controllato all’interno di una cornice che non è quella del reale conflitto. Anzi più gli sport sono violenti più devono accentuare l’amicizia tra chi li pratica: pensiamo ad esempio all’abbraccio dopo lo scontro.

Per Elias nell’occidente si sposta così continuamente la linea che demarca i comportamenti accettati e quelli non accettati e vengono accentuati progressivamente gli elementi di controllo sulla violenza ma anche sulle emozioni e sui contatti fisici tra le persone. Si sono formate, a partire dalle società di corte delle grandi monarchie europee dell’età moderna, delle barriere istituzionali e psicologiche contro la manifestazione immediata dei sentimenti o contro i contatti fisici che non rientrano in determinate categorie molto controllate (es. rituali sociali come stretta di mano, sport, sessualità) ed è cambiato l’atteggiamento verso l’aggressività.

Nel Medioevo gli impulsi e le emozioni si manifestavano in modo più libero, vi erano sentimenti contrastanti e fortissimi (gioia, rabbia, odio) e non vi era timore nell’esprimerli. Noi oggi siamo diventati più misurati e calcolatori avendo interiorizzato i tabù sociali come auto-costrizioni per cui a noi appare come strano chi si comporta come avveniva nel medioevo (devozione religiosa o aggressività assoluta), mentre allora veniva escluso dalla società chi non amava o odiava con tutto sé stesso. In seguito, anche nelle monarchie il concetto di civiltà è stato legato alla capacità dei suoi membri di celare e controllare i loro sentimenti. Il concetto di civiltà dipende dalla società e dal monopolio della violenza che diventa appannaggio solo di alcune persone (soldati, carabinieri etc.) e circoscritta a determinati contesti.

Dunque dopo le guerre in Italia vi era un contesto disgregato con un indebolimento della civilizzazione e emergeva una maggiore naturalezza nell’aggressività che potremmo definire originale perché c’era prima. Questa tesi è interessante ma rischia di far pensare alla violenza come qualcosa di naturale che solo la civiltà può tenere sotto controllo. Quindi questa fase dopo la guerra va intesa come un codice culturale diverso che si afferma e che non è naturale, come se la guerra facesse emergere questo codice che è costruito dalla società e dai rapporti politici.

La belva umana

Alcune teorie del luogo comune sostengono che la violenza, e anche quella del Novecento, dipenda solo da brutalità e follia pura: questa è la tesi della «belva umana» che propone l’idea che le violenze di massa si producono solo quando vengono meno i freni della civiltà, lasciando riemergere la brutale natura selvaggia degli uomini. Una tesi hobbesiana, diciamo, secondo la quale lo stato di natura degli esseri umani è violento, e la convivenza pacifica si produrrebbe solo con il contratto sociale, con il quale gli uomini rinunciano alla violenza conferendone il monopolio allo Stato.

Mentre è necessario trovare i riferimenti culturali perché le caratteristiche della violenza di massa del Novecento sono legate strettamente a caratteristiche costitutive della modernità; forse, addirittura, non sono pensabili al di fuori della modernità. Neppure una contrapposta tesi “utilitarista”, che vede la guerra semplicemente come “prolungamento della politica con altri mezzi”, secondo la celebre definizione di von Clausewitz, è soddisfacente.

La stessa ricerca neurobiologica ha smentito questa idea di senso comune della “belva umana”, criticando per esempio le applicazioni alla realtà umana delle teorie etologiche alla Konrad Lorenz secondo le quali la società e la cultura si preoccuperebbero di fornire delle valvole di sfogo innocue per il deflusso di una naturale aggressività da predatore che non trova sbocchi diretti.

Tornando a Celano e ai celanesi

Quanto vi è in questo linciaggio del lascito della guerra e della privazione brutale della libertà sofferta con il regime fascista? Quanto del senso di appartenenza ad una comunità, appartenenza anche religiosa laddove per religione intendo qualcosa che abbraccia i riti, le credenze, le tradizioni, il sentire più profondo e più spicciolo delle persone e soprattutto dei gruppi di persone. Quanto dell’attaccamento ai santi protettori e quanto viceversa l’attaccamento odierno della popolazione a questi santi e le relative festività (24–25–26 agosto) sono legate alla necessità di giustificare, innanzitutto a noi stessi, quanto accaduto in quel lontano 30 dicembre?

Quanto dunque l’accaduto è legato al singolo uomo e il singolo paese, e quanto invece all’Uomo e al nostro Paese?

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Riferimenti bibliografici

- Fabio Dei, «Antropologia della violenza nel XX secolo» in F. Masotti (a cura di) «Le guerre del XX secolo e le violenze contro i civili», Aracne, Roma 2004

- Antonio Falcone, «La folla criminale», Corbaccio, Milano 2005

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Ente politico, etico e civile per la tutela dei diritti umani.